TITOLO: LA
DINAMO FUTURISTA.
OMAGGIO A UMBERTO BOCCIONI
PRIMO CONTI - DISEGNI PER HARRIET QUIEN, “LA DONNA CHE VENNE DAL
MARE”, 1912-1925
SEDE: Museo d’Arte
Riva Caccia 5
CH - 6900 Lugano
MASILugano
DATE: Dal 15 febbraio al 19 aprile 2009
Presentazione
La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal
mare”, 1912-1925
Nel centenario della nascita del futurismo, il Museo d’Arte di Lugano
contribuisce alle celebrazioni di questo importante anniversario con
una duplice mostra.
La prima, che occupa il primo e secondo piano del museo, propone un
omaggio a Umberto Boccioni (1882-1916), uno dei maggiori esponenti di
questa fondamentale avanguardia artistica del primo Novecento.
La seconda, che si snoda nelle sale del terzo piano, è dedicata a una
scelta di disegni dell’artista fiorentino Primo Conti (1900-1988),
sodale di Boccioni.
Ed è proprio la relazione artistica del giovane Conti con il maestro
Boccioni, che si evince dalla sua autobiografia La gola del merlo
(1983), una delle ragioni per cui si è voluto coniugare in un unico
momento espositivo la presentazione del lavoro di due artisti che,
ognuno con la propria temperie, hanno influenzato l’estetica del XX
secolo.
La mostra, che offre un primo confronto con il disegno di Conti e che
permette di vedere nuovamente a Lugano, integrate da numerosi disegni,
le opere di Boccioni in un momento in cui la sua produzione maggiore,
soprattutto di conio futurista, è osservabile a Parigi, Roma, Londra e
Milano, pone il Museo d’Arte, quale naturale sede interlocutrice, tra
le altre mete di un viaggio conoscitivo pieno di promesse e verifiche
attraverso uno dei periodi artistici più fervidi dell’arte del XX
secolo, caratterizzato da profondi e radicali sconvolgimenti
culturali.
Comunicato stampa
La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal
mare”, 1912-1925
Museo d’Arte, Lugano (CH)
15 febbraio – 19 aprile 2009
Proprio a febbraio del 2009 ricorre il centenario della fondazione del
movimento futurista. Il contributo che il Museo d’Arte di Lugano
intende dare alle celebrazioni di questo importante movimento è
focalizzato su un omaggio a Umberto Boccioni, uno dei protagonisti del
futurismo, che più di altri ha contribuito alla sua nascita e al suo
sviluppo. Un piano del museo è dedicato alla produzione giovanile del
futurista fiorentino Primo Conti, sodale di Boccioni.
Omaggio a
Umberto Boccioni
Nell’ambito della mostra dedicata a Boccioni, che occupa il primo e il
secondo piano del museo, sono per la prima volta messi in dialogo due
importanti nuclei dell’artista: le opere su carta di proprietà dello
Stato italiano conservate alla Galleria Nazionale di Cosenza in
Calabria, regione nativa di Boccioni, e le opere prefuturiste presenti
nella Collezione della Città di Lugano.
Quest’ultima raccoglie ventuno opere realizzate dall’artista tra il
1903 e il 1909 provenienti dalla raccolta d’arte dello stampatore
Gabriele Chiattone donata alla Città di Lugano nel 1961. Un numero
importante di queste opere è stato presentato in occasione della
mostra Boccioni prefuturista tenutasi al Museo Nazionale di Reggio
Calabria nel 1983 mentre il nucleo nella sua totalità alla mostra
Opere d’arte della Città di Lugano. Donazione Chiattone presso il
Museo Civico di Belle Arti di Lugano nel 2006-2007.
La Galleria Nazionale di Cosenza conserva una serie di opere su carta
già appartenute ad una delle più prestigiose collezioni americane,
quella di Lydia e Harry Winston, successivamente acquistate da Carlo
F. Bilotti e infine confluite nella collezione della Galleria
Nazionale di Cosenza nel 1996. L’insieme è costituito da sessanta
fogli con ottantacinque disegni di periodi diversi, relativi al
periodo della formazione, all’esperienza prefuturista e con alcuni
significativi fogli del periodo futurista. Il fondo è stato studiato e
presentato al pubblico in occasione della mostra Umberto Boccioni. Una
raccolta di disegni e incisioni presso il Museo d’Arte dell’Otto e
Novecento di Rende nel 2008.
L’impostazione dell’esposizione ha una valenza innanzitutto
filologica, di messa in dialogo dei due nuclei boccioniani a cui
saranno integrati una serie di complementi provenienti da altre
collezioni pubbliche e private svizzere e italiane pertinenti alle
opere presenti nell’istituzione ticinese e in quella cosentina.
Di particolare interesse sono gli accostamenti inediti in mostra di
alcuni studi preparatori con le relative esecuzioni ad olio come nel
caso ad esempio di Contadini al lavoro e Campagna lombarda.
L’obiettivo, oltre a proporre un percorso attraverso l’opera di
Boccioni dai primi anni del Novecento fino alle prove del 1915 –
ovvero dal divisionismo di impronta naturalistica, attraverso il
simbolismo e il futurismo, fino alle ultime prove di impostazione
cézanniana – è quello di valorizzare le opere delle due collezioni
pubbliche mediante l’accostamento di olii, disegni e grafiche
evidenziando alcune procedure creative e illustrandone le tappe più
significative.
Alla presentazione della mostra al Museo d’Arte di Lugano farà seguito
una tappa della stessa in Calabria.
L’esposizione ideata da Bruno Corà, a cura di Tonino Sicoli e Cristina
Sonderegger, sarà accompagnata da un catalogo edito da Silvana
Editoriale con contributi critici dei curatori, di Maurizio Calvesi e
l’illustrazione a colori di tutte le opere in mostra.
Primo Conti
Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal mare”
1912-1925
La mostra di Primo Conti, a cura di Daniela Palazzoli, occuperà il
terzo piano del museo. Nell’anno in cui si celebrano i primi cento
anni del Movimento Futurista Italiano, pubblicizzato ufficialmente da
Filippo Tommaso Marinetti sul quotidiano “Le Figaro” di Parigi il 20
Febbraio 1909, la mostra ripercorrere in modo sintetico e
qualitativamente alto gli esordi di Primo Conti (1900-1988), dai primi
disegni di timbro espressionista alla sua ormai celebre fase
futurista, fino ad un breve periodo di ispirazione metafisica che si
conclude intorno al 1925 con il ritorno ad una costruzione più
classica dell’opera d’arte.
Questo è reso possibile dalla selezione di un nucleo di una sessantina
di disegni facenti parte della raccolta di un suo grande amore
giovanile, la Signora Harriet Quien, che egli conobbe nei primi anni
Venti sulla spiaggia di Antignano dove era solito passare le vacanze,
come si racconta in un capitolo delle sue memorie intitolato La donna
che venne dal mare.
La convergenza dell’aspetto artistico con quello privato consente
anche di sfatare una delle leggende che circondano la figura giovanile
di questo enfant prodige dell’arte d’avanguardia, che comincia a
disegnare e dipingere in età precocissima, con un’urgenza ed una
serietà che lo portano ad ignorare i trastulli infantili e
dell’adolescenza. Così sintetizza in modo lapidario questa condivisa
impressione lo scrittore e suo amico Giovanni Papini: “Primo Conti di
Firenze, nato col secolo, fu pittore prima ancora d’essere uomo”.
Disegnatore fecondo, Primo Conti usava la matita come strumento di
grande immediatezza utile per fissare impressioni, dettagli e concetti
base dei fatti e personaggi reali che incontrava quotidianamente, da
rielaborare eventualmente in seguito. In questo percorso di scoperta e
messa a punto dei suoi stili attraverso le quattro fasi iniziali della
sua attività conferma la sua fama di “cartina di tornasole di tutte le
avanguardie” (Vanni Scheiwiller).
Lo scavo compiuto da Daniela Palazzoli per ricostruire la personalità
e la vita di Harriet Quien (1900- 1981) – che, per esempio, pretendeva
di essere chiamata ‘Harry’ perché “non è il sesso a definire la
personalità delle persone” - ci mostra una donna straordinaria,
poliglotta e cosmopolita, in anticipo sui tempi, e dotata di capacità
di valutazione e di movimento a 360 gradi, che oggi possiamo definire
da globalizzazione avanzata. Conti dimostra, nei suoi scritti e nei
documenti conservati presso la Fondazione Primo Conti di Fiesole, di
rendersi conto della eccezionalità della sua Musa; il che è una delle
ragioni del suo amore per lei. In questo incontro fra due coetanei,
nati entrambi col secolo, si realizza quella aspirazione di continuità
fra arte e vita che Primo Conti aveva scoperto quando, appena
quattordicenne, aveva contribuito ad allestire la mostra di Umberto
Boccioni a Firenze e, ancora prima di conoscerlo e condurlo a visitare
su sua richiesta le sculture dei Prigioni di Michelangelo, aveva
provveduto a restaurare uno dei suoi gessi da esporre in mostra. Primo
Conti scoprì in quell’occasione che Umberto Boccioni amava usare
materiali deperibili perché: “l’opera d’arte per essere viva deve aver
la stessa sorte dell’uomo e subire, come l’uomo, la malattia e la
morte” (Boccioni). Incluso anche l’amore: come prevede la coerenza fra
arte e vita.
Presentazione
La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Bruno Corà
Nel corso delle attività di allestimento di una mostra di opere di
Alighiero Boetti, da me curata e tenutasi a Cosenza, in Palazzo Arnone
nel decennale dalla scomparsa dell’artista, venni a conoscenza della
conservazione presso quella sede pubblica del fondo di disegni e
incisioni di Umberto Boccioni, già appartenuti alla collezione Winston
Malbin. In una seconda iniziativa, dedicata alla “visitazione” da
parte dell’opera di un protagonista dell’arte contemporanea come
Jannis Kounellis della pittura del pittore seicentesco Mattia Preti,
mi fu offerta l’opportunità di prendere visione delle opere di
Boccioni custodite presso la Soprintendenza calabrese. Ho voluto
ricorrere a questi due antefatti per chiarire i momenti e le
circostanze nelle quali ha preso corpo il desiderio di dedicare una
mostra a Boccioni, finalmente divenuto realizzabile allorché, con
l’inizio delle attività del Polo Culturale della Città di Lugano, si
rendeva concreta l’ipotesi di avvicinare ai disegni e alle incisioni
di Cosenza il cospicuo numero di oli di Boccioni facenti parte della
donazione Chiattone, oltretutto in buona parte integrabili gli uni
agli altri come le due facce di una sola medaglia. Infatti, sono
numerosi i disegni del grande artista italiano che hanno costituito
gli “studi” preparatori per gli oli presenti nelle collezioni civiche
luganesi.
Il progetto a cui miravo per una mostra inedita che il Dicastero
Attività Culturali e il Museo d’Arte di Lugano potevano tentare di
realizzare. È così che ha avuto inizio un lavoro di ricerca affidato a
Cristina Sonderegger e a Tonino Sicoli, curatori della mostra alla
quale ho inteso dare il mio attivo contributo, sensibilizzando
collezionisti privati e sedi pubbliche in grado di arricchire
l’episodio con altri esempi significativi del grande protagonista del
futurismo. E le risposte positive non sono mancate.
Con questa mostra si avvia una collaborazione con la Soprintendenza
per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria e si
rinsalda quella con la Biblioteca Cantonale di Lugano, nella quale non
mancano interessanti pubblicazioni e documenti che, per la
circostanza, sono stati concessi in prestito e dunque sono presenti
accanto ai disegni e ai dipinti di Boccioni.
Se, com’è stato osservato, le opere di Boccioni provenienti dalla
collezione Chiattone, oggi di proprietà della Città, sono
particolarmente significative del periodo nel quale si pongono i
presupposti della pittura futurista, i disegni e le incisioni di
Cosenza non lo sono di meno, essendo, in alcuni casi, preparatori di
essi.
Sotto la spinta integrativa successiva alle singole mostre dedicate ai
disegni e alle incisioni della Galleria Nazionale di Cosenza – già
realizzate rispettivamente in quella città nel 2003 e a Rende nel 2008
– e a quella dedicata alla donazione Chiattone a Lugano nel 2006,
l’odierna ricerca ha consentito di accostare i due nuclei davvero
preziosi, per seguire i passi di Boccioni nei difficili anni della sua
“gavetta” presso lo stabilimento dei Chiattone a Milano tra il 1907 e
il 1909 con altre interessanti opere che dilatano l’osservazione sulla
pittura prefuturista dell’artista, fornendo più elementi di
riflessione per la sua valutazione. Questo contributo scientifico, che
rende possibile vedere nuovamente le opere di Boccioni a Lugano in un
momento in cui la sua produzione maggiore, soprattutto di conio
futurista, è osservabile a Parigi, Roma e Milano, pone il Museo
d’Arte, quale naturale sede interlocutrice, tra le altre mete di un
viaggio conoscitivo, soprattutto per le nuove generazioni, pieno di
promesse e di verifiche.
La collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Calabria e con il Museo d’Arte dell’Otto e
Novecento della cittadina di Rende segna anche l’intenzione del Polo
Culturale di aprirsi verso soggetti culturali non solo limitrofi, ma
anche più lontani, purché recanti opportunità di scambio culturale e
occasioni di diffusione reciproca dell’azione promotrice delle arti e
dell’estetica del XX secolo.
L’itineranza di questa mostra prelude ad altri futuri episodi e
rapporti operosi nell’intento di valorizzare le collezioni civiche e
l’attività scientifica che da esse può derivare.
Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
Città di Lugano
“Cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò?”
Boccioni prefuturista
Cristina Sonderegger
(estratti del saggio in catalogo)
Il 14 marzo 1907, a Padova, dove risiede da circa quattro mesi dopo il
suo rientro da Parigi, Umberto Boccioni annota nel proprio diario le
seguenti riflessioni: “Sono stato in campagna per lavorare e non ho
trovato nulla. Le solite linee mi stancano, mi nauseano sono stufo di
campi e di casette. E pensare che appena arrivato a Padova ne ero
entusiasta e speravo.
Bisogna che mi confessi che cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò?
Ieri ero stanco della gran città, oggi la desidero ardentemente.
Domani cosa vorrò? Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del
nostro tempo industriale. Sono nauseato di vecchi muri, di vecchi
palazzi, di vecchi motivi di reminescenze: voglio avere sott’occhio la
vita di oggi. I campi, la quiete, le casette, il bosco, i visi rossi e
forti, le membra dei lavoratori, i cavalli stanchi, ecc. tutto questo
emporio di sentimentalismo moderno mi hanno stancato. Anzi, tutta
l’arte moderna mi pare vecchia. Voglio del nuovo, dell’espressivo, del
formidabile! Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo che
conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove
basi! Tutto il passato meravigliosamente grande, m’opprime io voglio
del nuovo! E mi mancano gli elementi per concepire a che punto si è, e
di cosa si ha bisogno.
Con che cosa far questo? col colore? o col disegno? con la pittura?
con tendenze veriste che non mi soddisfano più, con tendenze
simboliste che mi piacciono in pochi e che non ho mai tentato? Con un
idealismo che mi attrae e che non so concretare?
Mi sembra che oggi mentre l’analisi scientifica ci fa vedere
meravigliosamente l’universo, l’arte debba farsi interprete del
risorgere poderoso, fatale d’un nuovo idealismo positivo. Mi sembra
che l’arte e gli artisti siano oggi in conflitto con la scienza… C’è
un malinteso. È vero questo che dico o mi sbaglio? È una verità che se
fantasticamente potessi andare in luogo affatto nuovo dopo un lungo
studio farei cose nuove.
Ora io mi sento frutto del mio tempo e mi sembra che qui a Padova
tutto sia vecchio. Questa sensazione la allargo a tutta l’Italia,
quasi, meno un po’ dell’alta e ne tiro la conclusione che si vive
fuori d’ambiente. L’epoca nostra febbrile fa vecchio e in disuso
quello che è stato fatto ieri. Cosa può inspirare se non della
semplice tecnica un ambiente che non vive d’oggi? In Italia mi sembra
tutto in disuso: un enorme museo per le cose d’arte, un’enorme bottega
da rigattiere per quelle d’uso.
Le vie, le linee, le persone, i sentimenti sentono di ieri con
l’aggravante dell’odore indefinibile dell’oggi. Noi viviamo in un
sogno storico. Questa è la delizia dei forestieri che vengono
giustamente a riposarsi, ma fa fremere me al pensiero che gli storici
del secolo XX non parleranno di Italia”.
Fuori dal tempo e dalla storia, tenuto ai margini del “nuovo,
dell’espressivo, del formidabile”, costretto tra il disincanto per una
gloriosa, quanto ingombrante e inservibile, eredità artistica e
l’esigenza di un “nuovo idealismo positivo”, che tuttavia ancora
sfugge nelle forme e nelle tecniche: così Boccioni si sente in quella
primavera del 1907 a Padova, dove tutto, a immagine dell’intera
Penisola, sa di “ieri con l’aggravante dell’odore indefinibile
dell’oggi”. Ma proprio la disillusione nei confronti di una cultura
che sente come periferica, convenzionale e superata, la lucida e
spregiudicata riflessione sul proprio lavoro, la fermezza e lo slancio
verso il nuovo restituiscono l’immagine di un intellettuale pienamente
iscritto nella cultura più avanzata del suo tempo, contiguo
all’esperienza vociana e autentico precursore del futurismo. Tale è
l’importanza delle riflessioni di quella primavera, che non a caso
saranno in parte riprese da Filippo Tommaso Marinetti nell’Opera
completa a lui dedicata: esse rivelano le difficoltà che Boccioni
incontra nella sua ostinata ricerca di una sintesi artistica “del
nostro tempo industriale”, difficoltà che si risolveranno più tardi, a
poco meno di due anni di distanza, dopo che su “Le Figaro” del 20
febbraio 1909, pubblicando il manifesto, Marinetti darà avvio alla
ricca e concitata stagione del futurismo. E le parole di Boccioni –
per questo si è voluto riportarle integralmente [...] – forniscono la
più eloquente chiave di lettura dell’insieme delle opere presentate in
questa mostra. Negli scritti del 1907-1908, anni a cui appartengono la
maggior parte degli oli, dei disegni e delle incisioni presi in
considerazione, a più riprese Boccioni dà libero sfogo ai propri
dubbi: dubbi che puntualmente si rispecchiano nella variegata e
altalenante produzione di anni dedicati alla ricerca e alla
sperimentazione. Così, se per un verso tenta di emanciparsi
dall’insegnamento del suo primo importante maestro, Giacomo Balla, che
a Roma lo introduce alla pittura divisionista e non solo, dall’altro
cerca il confronto con l’opera di Giovanni Segantini, è affascinato
dal segno grafico di Aubrey Beardsley, conosce e frequenta Gaetano
Previati, che sarà la seconda importante figura nel suo percorso
artistico. Di tutto ciò Boccioni parla nei propri scritti, fornendo un
prezioso contributo alla lettura delle opere realizzate nei
fondamentali anni che precedono quella che possiamo senz’altro
definire la liberazione futurista. Se Boccioni non si scopre certo
artista in quel momento ed è indiscutibile la grande qualità della
produzione del primo decennio del Novecento, è nella pittura, e forse
soprattutto nella scultura del quinquennio successivo, a cui dedica
anche i propri testi teorici, che egli riesce a coniugare le proprie
idee con un linguaggio espressivo originale, dando sfogo a tutta
l’“energia necessaria continua ininterrotta della testa guidatrice
della mano” e lasciandosi finalmente alle spalle quella “netta
sensazione che la mia mano non ubbidisce la mia mente” che lo
tormentava ancora qualche anno prima. Le pagine che seguono intendono
proporre un breve percorso attraverso l’opera di Umberto Boccioni
prendendo spunto dai dipinti a olio e dalle opere su carta riuniti in
mostra e in catalogo, dove per la prima volta sono stati messi in
dialogo il fondo appartenente alla collezione della Città di Lugano e
le opere provenienti dalla vendita della Winston Malbin Collection,
svoltasi a Lugano nel 1991 e nel 1992, successivamente acquistate
dallo Stato italiano, e oggi conservate presso la Galleria Nazionale
di Cosenza. A queste è affiancata una scelta di opere provenienti da
altri musei e collezioni private svizzere e italiane, pertinenti alle
scelte del nucleo ticinese e di quello cosentino: se l’arco
cronologico spazia dal 1903 al 1915 – ovvero dal divisionismo
d’impronta naturalistica, attraverso il simbolismo e il futurismo,
fino alle ultime prove d’impostazione cézanniana – le opere
selezionate sono per la maggior parte riconducibili al periodo
prefuturista di Boccioni, e in particolare al 1907-1908, quando,
accanto all’attività più propriamente pittorica, l’artista si dedica
anche all’incisione, all’illustrazione e alla grafica pubblicitaria.
Boccioni, gli scritti giovanili
Maurizio Calvesi
(estratti del saggio in catalogo)
(…) Umberto, che nel Meridione fa le prove per affermarsi nell’agone
letterario, aspira a una carriera di giornalista e di scrittore, e
diventa pittore solo in seguito, ma neanche subito dopo l’arrivo a
Roma. In una lettera spedita alla madre il 9 marzo 1901, egli torna,
sia pure in tono scherzoso, a vantare le proprie qualità di scrittore,
poeta e “filosofo ateo-scettico-materialista, nuovo fondatore del
sistema filosofico dei Cazzacci”. Ora sta scrivendo la Carcereide,
“poema epi-eroico-erotico-tragi-comico” in terzine. In una lunghissima
lettera indirizzata agli amici di Catania, e databile
all’estate-autunno del 1901 (riportata nelle parti essenziali anche da
Agnese), racconta dei suoi amori e spiega come si guadagna da vivere,
al servizio del deputato catanese Beniamino Pandolfi Guttadauro e
anche dell’onorevole Francesco Paternostro, deputato di Corleone, che
introduce Boccioni al “Fanfulla”, periodico umoristico.
Proprio al “Fanfulla” aggiunge poi che “scopersero in me una grande
tendenza alla caricatura perciò mi presentarono a un pittore e adesso
sotto la guida di Stolz, un mio amico ammogliato con figli, io studio
la figura. Mi sono comprato i pastelli, i pennelli, la china e quella
stecca con una palla per posare il braccio e adesso mi farò il
cavalletto. Vedi che nuoto in piena vita artistica. Dopo questa visita
a Stolz devo fare qualche altra cosa. Poi vorrei cominciare il romanzo
di me e Armida. Poi devo scrivere tutta una strenna che comparirà per
Natale con disegni di Stolz. Questi giorni inoltre ho mandato un
articolo di critica alla ‘Gazzetta di Catania’. Non so se lo ha
pubblicato ancora... Scriverò anche a qualche altro giornale”. (…)
(…) Gino Severini che, nel suo Tutta la vita di un pittore, racconta
di aver conosciuto Boccioni a Roma una sera d’estate; il giorno dopo
fecero un bagno nell’Aniene, “credo nel 1900”. Severini afferma anche
che Boccioni al tempo di questo loro incontro “non aveva mai toccato
né pennelli né colori”, ma già disegnava sia pure nel modo più
sprovveduto. Si trattò forse dell’estate del 1901, subito prima della
lettera in cui Boccioni racconta il suo approccio agli strumenti del
mestiere? “Il giovane Umberto – leggiamo ancora nel testo di Severini
– viveva col padre in casa di uno zio e mi disse pure che il padre per
secondarlo nel suo desiderio di darsi all’arte, lo mandava a prendere
lezioni da uno di quei cartellonisti che, intorno al 1900,
imbrattavano i muri delle città. Questo pseudopittore gli faceva
copiare i suoi orribili cartelloni, e sono questi disegni, uno più
brutto dell’altro, che mi mostrò”. (…)
(…) Dei componimenti poetici, Fra i morti è quello che con maggiore
virulenza riproduce il clima ferale che assediava la già pessimistica
fantasia del giovane Boccioni: descrive una ridda di scheletri che si
scatena sui sepolcri di un cimitero al calare della sera. Riporto
questi versi, di un lugubre “dantesco”, che aprono uno spiraglio sulle
pieghe più amare e pessimistiche dell’immaginazione boccioniana,
evidentemente presenti fin dalla prima giovinezza. L’artista, come
noto, era soggetto a stati depressivi interrotti da esplosivi momenti
di allegria e vitalità:
Quando la sera le nere ali stende
e spenta è ogni face,
Quando l’oscurità già l’aere fende
e tutto intorno è pace
Quando finito è in ciel il lieto canto
degli augelli festanti,
Sulla tomba feral del camposanto
tetri s’alzano i pianti.
Son pianti flebili orridi schianti
urli, bestemmie e grida,
E fischi di rabbia odi e odi pianti
tra voci di sfida.
Sulle tombe danzar vedi gli spetri
avvolti in bianca vesta
E de’ fantasmi vedi i volti tetri
l’ischeletrita testa.
Una ridda infernal s’alza e s’aggira
e ognun su l’un compare,
Tra un fetido vapor che come spira
s’alza su e giù e scompare.
A un arcano segnal cessa il lamento
e ognun alla sua fossa
Brancolando s’en va furioso e lento
mordendo fino a l’ossa
Quella carne sanguigna e imputridita
che le pene d’inferno
Gli han serbata a gridar per sempre aita
e maledir l’Eterno.
Cos’è il mondo è un sonetto che traccia, ma con piglio vivace, uno
sconfortante ritratto del mondo in cui viviamo:
Immagina un immenso baraccone,
variato di quadretti e di figure,
il diavolo sta dentro e tien le cure
d’un caos di animali e di persone.
Infra le cose più sconclusionate,
vedrai nascere, sorgere e morire,
vedrai molte, ma molte pagliacciate
fuse a slanci d’eroi pieni d’ardire.
Vedrai amori, turpi tradimenti,
anime vili, ipocrite e mendaci,
oper nefande, di tigri e di dementi.
Unisci tutto questo e avrai lo sfondo
d’una tela imbrattata di lordure,
che volgarmente vien chiamato mondo.
A parte il limitato, o quasi inesistente valore letterario (…) si
tratta di documenti preziosi non solo per la commovente testimonianza
che portano sugli amori e le aspirazioni del futuro pittore nei suoi
anni catanesi, ma anche per l’indicazione che alcuni di essi
contengono, come abbiamo cercato di dire, in ordine a una visione a
tratti fosca dell’esistenza, le cui tracce continueranno ad affiorare
nelle lettere e nei diari dell’artista. Severini racconta degli
attacchi di disperazione di Boccioni, dicendo che in questa
disperazione c’era “molta letteratura”; i testi ritrovati sembrano
dargli ragione, ma al tempo stesso testimoniano delle radici che
questo sentimento disperato, benché pronto a capovolgersi nella più
sonora allegria, affondava nella natura stessa dell’uomo, spesso in
bilico tra depressione ed esaltazione. (…)
(…) Il recente libro Una parentesi luminosa di Marella Caracciolo
Chia, che ha portato a conoscenza la vicenda amorosa di Umberto
Boccioni e Vittoria Colonna negli ultimi mesi di vita del pittore, ha
fatto luce sul dramma della sua morte, descritta da Emilio Piccoli in
una lettera a Vittoria, morte che si credeva dovuta a un eccesso di
vitalità (aver sfidato un cavallo particolarmente riottoso e ribelle),
cioè alla più vitale tra le alternative del suo carattere. In realtà
fu il contrario. Umberto rimase vittima di una delle sue cadute
depressive, provocata da un’interruzione, dopo il 4 agosto, della sua
corrispondenza con l’amata, interruzione peraltro (ma Umberto non lo
seppe) non voluta da lei. “Gentile Amica – scrive Umberto a Vittoria
il 16 agosto, ovvero alla vigilia del decesso – ho atteso anche oggi
la posta e non ho ricevuto nulla. Non posso arrivare a capire! Siete
ammalata? Vi annoia rispondere? Vi hanno annoiato le mie? Cosa è
accaduto? Non comprendo! Vivo in un orgasmo che non mi dà pace. Non ho
nemmeno la forza di stare a cavallo [...]”. Qualche ora dopo, per
cercare di distrarsi, Umberto torna, da principiante quale era e con
quello sfinimento addosso, a esercitasi nell’equitazione, con un
cavallo peraltro, in realtà, assai mansueto e accompagnato dal suo
sergente. Sono le diciannove e trenta. Imprevedibilmente, spaventato
da qualcosa, il cavallo scarta e si lancia al galoppo. Boccioni tenta
di aggrapparsi al collo dell’animale ma non trova il riflesso e le
forze sufficienti. Cade con la testa in avanti. Portato all’ospedale
di Verona “il ferito viene consegnato al medico di guardia, il quale
capisce subito che il caso è disperato. Due ore dopo arriva il tenente
di Boccioni, che gli fa fare un’iniezione di caffeina. Prova a
parlargli. Chiede se è caduto da cavallo, racconta ancora Emilio
Piccoli, al che Umberto rispose di no, con un cenno del capo e con la
voce. Allora il tenente gli chiese: ‘Ma Boccioni, mi riconosci?’. Ed
egli rispose: ‘Sì, Lei è il tenente mio’. ‘Ma dunque – insisté il
tenente – sei caduto da cavallo?’ E qui il morente ripeté ‘no’. E fu
la sua ultima parola”. Guardare ora il manoscritto di Pene dell’anima
posseduto da Nicotra, lascia turbati. Esso termina con la parola FINE
e sotto vi è disegnato (sono le sue più antiche prove grafiche) un
cavallo che scalcia dopo aver disarcionato il proprio cavaliere, che è
rotolato a terra. “Fine”. Qualche pagina avanti, un altro schizzo di
Boccioni riproduce Mario Nicotra nelle vesti di guerriero medievale
con la spada in mano, e la scritta: “Al Glorioso Capitano Mario
Nicotra morto ascendendo la scala della Gloria”. Segue uno scherzoso:
“Pace all’animaccia sua”. Nicotra morì in battaglia sul monte San
Michele, con il grado di capitano di fanteria, pochi giorni prima
dell’amico Umberto. Gli fu attribuita una medaglia d’argento al
valore.
Visioni simultanee
Tonino Sicoli
(estratti dal saggio in catalogo)
Boccioni, due anime. Due caratteri in una complessa personalità. Da un
lato il malinconico poeta di una condizione intrisa di cultura
simbolista, dall’altro il sanguigno protagonista di una stagione di
rinnovamento culminata nel futurismo. Si intreccia, così, la figura di
uno dei più importanti artisti del Novecento, emblematico personaggio
di una fase di passaggio dal XIX secolo che si chiude al XX che
inizia. Quasi inconsapevolmente Umberto Boccioni si porta dietro tutte
le contraddizioni di un’età convulsa, di un tempo attraversato da
profondi processi di cambiamento, la crisi di un’epoca che diventa la
sua personalissima crisi. La sua sensibile identità oscilla fra
posizioni intellettuali ed esistenziali faticose, vissute con estrema
partecipazione, fra linee poetiche che si contraddicono in un periodo
storico ancora indefinito. Vive in sé umori contrastanti e amori
travagliati, si districa in un ginepraio di idee e culture
contrapposte, fra concezioni divergenti. Soggetto affascinante,
proprio per questa sua modernità umana prima ancora che intellettuale,
artista nella vita e nelle arti, epigono di una generazione di
disperati e maledetti (Leopardi, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Van
Gogh, Toulouse-Lautrec, Modigliani) ma iniziatore di una progenie di
sostenitori del progresso e di una rifondazione – futurista appunto –
dell’universo.
Boccioni si muove all’interno di coppie di categorie opposte. Il
dualismo si manifesta intanto in un diverso atteggiamento fra l’uomo
pubblico e quello privato. Nei proclami adotta il linguaggio
aggressivo e il tono arrogante del predicatore settario, nei diari e
nelle lettere assume espressioni più pacate e accenti introspettivi,
talvolta lamentosi. Nei manifesti enuncia provocatoriamente i dettami
della nuova poetica disprezzando il gusto infrollito dei passatisti e
la pesante vuotaggine degli accademici, mentre nei taccuini si lascia
andare a confessioni intime e a briciole di banalità quotidiana. Anche
l’opera risente di questa doppia identità. Lo si avverte nei dipinti
realizzati fra il 1909 e il 1910, ai prodromi dell’avventura
futurista, e in quelli del 1916, quando, poco prima della sua morte,
l’artista già preconizza un superamento del futurismo. C’è una certa
contiguità fra Boccioni simbolista-divisionista e Boccioni futurista,
non solo temporale, ma anche sincronica. Anche se la cronologia
giustifica, comunque, la naturale evoluzione stilistica, appare
evidente in una valutazione complessiva dell’opera boccioniana,
l’esistenza di due momenti collegati ma distinti. La forza d’energia
delle composizioni pienamente futuriste – La città sale, La risata,
Visioni simultanee – è altra cosa dal più delicato gusto delle opere
prefuturiste, che perdura, tuttavia, fino al 1910, a futurismo
iniziato. In queste i colori crepitanti alla maniera divisionista
sono, comunque, aderenti alla tavolozza della natura, la scomposizione
a punti e tratti cromatici interessa l’effetto texture della
superficie ma non investe la struttura dell’opera, che resta quella
del paesaggio più o meno tradizionale, come ben si può vedere in quasi
tutta la collezione Chiattone di Lugano. (…)
(…) Tornando a Boccioni può cogliersi ancora il rapporto dialettico
esistente fra la sua pittura esuberante e la sua scultura vigorosa da
un lato e i suoi sobri disegni e le delicate incisioni dall’altro.
Alla stesura densa delle pennellate piene di energia si oppongono i
tratti sottili di un disegnare leggero, all’espressione forte fa
fronte la suggestione lieve. L’opera compiuta si palesa nella sua
sicurezza, l’appunto visivo sottintende la sua precarietà. La pittura
appartiene a una dimensione pubblica dell’arte, mentre il disegno ha a
che fare più col privato. Non a caso la produzione grafica negli
artisti è sempre meno nota e – come nel caso dei disegni bocconiani
della collezione della Galleria Nazionale di Cosenza – getta spesso
un’utile luce interpretativa sulla cosiddetta produzione “maggiore”.
Alcuni di questi disegni sono studi preparatori di dipinti realizzati,
altri sono studi di ricerca, rispetto ai quali il collegamento a
realizzazioni pittoriche non sussiste o comunque risulta indiretto.
(…)
(…) Sono piuttosto evidenti i collegamenti con altre figure femminili
dello stesso Boccioni, compresi alcuni ritratti della madre eseguiti
nello stesso anno e, soprattutto, con Maestra di scena, in cui
ripropone la stessa posa con la figura poggiata sul bracciolo. I vari
bozzetti di Donna che legge elaborano la figura femminile del delicato
dipinto Romanzo di una cucitrice del 1908. Si tratta di quattro
disegni a matita in cui l’artista, oltre alla postura generale della
figura femminile, saggia la posizione delle gambe affusolate e
compostamente accavallate sotto l’ampia gonna di cui studia il
drappeggio posteriore. Scrive Boccioni nei suoi diari il 28 maggio
1908: “la figura la vo cambiando ancora tornando verso quella che a me
sembra realtà. Perché questo? Forse per la vicinanza d’una donna
giovane per la quale nutro affetto?”. In questi bozzetti della modella
Ines, l’artista raggiunge per rapidità del tratto risultati di
rigorosa linearità e assoluta sintesi formale, efficaci per
raffinatezza e senza i diversivi effetti della tecnica divisionista
che indugia su una resa intimista. (…)
(…) In Studio per Contadini al lavoro, invece, viene impostato
l’insieme dei colori, che sono annotati, addirittura, oltre che con
l’indicazione delle tinte, con l’effetto da ottenere: freddo, caldo,
terreno, noce rosso massimo scuro, bluastro eccetera. Il risultato è
nel piccolo ma intenso dipinto del 1908, Contadini al lavoro, della
collezione Chiattone, che rappresenta una felice rappresentazione
dello spazio attraverso l’impiego dei soli colori, assurti così al
ruolo di gradienti di profondità. In altri casi Boccioni studia dei
particolari poi inseriti in opere più articolate come Campagna
lombarda, sempre della collezione luganese; il pergolato di sinistra,
l’albero in primo piano e la pianta alla sua destra sono provati in
tre disegni di Cosenza in un approccio meditato alla composizione
finale dell’opera, che risulta così una bella sintesi di elementi
formali e di materia pittorica. (…)
(…) Boccioni, dunque, eterno artista in crisi, genio contraddittorio
di un’avanguardia che brucia come un fuoco di paglia, ansioso
interprete di una condizione tutta moderna, non univoca, fatta di
andamenti irregolari, con tante entrate e con tante uscite. Un acceso
teorizzatore del futuro prigioniero del tempo presente, un
intellettuale aperto in balia della sua sensibilità umana. Scrive il
21 dicembre 1907: “avere la forza di vivere senza amici soli col
proprio ideale: ecco la libertà vantata […]. L’impossibilità, la
serenità, la contemplazione in alto nel silenzio, nel gelo forse
(beata solitudo - sola beatitudo) e giù le lotte le fatiche brutali,
l’amore, la guerra, la morte”. (…)
(…) Nella formazione della sua personalità c’è il rapporto
particolarissimo che Boccioni ha con la madre Cecilia Forlani. Per lui
la madre è l’origine di tutto: mater sta anche per materia; e si
intitola appunto Materia il grande ritratto futurista della madre,
appartenente alla Collezione Mattioli e oggi al Guggenheim di Venezia.
La materia è la matrice originaria della pittura: plastica, dinamica,
cangiante e sorprendente. A questo simbolismo forte si rifanno molte
altre opere di Boccioni dedicate alla madre, che viene ritratta in
tante versioni e in vari periodi. L’ombra della madre grava su tutta
la sua vita, compresa quella sentimentale. L’amore stesso è una forza
vitale, una spinta alla creatività, al bello, all’arte. Boccioni non è
insensibile al fascino femminile, ai piaceri degli incontri galanti,
alla seduzione muliebre. La sua modella prediletta, Ines, ritratta in
tanti dipinti, è anche la sua amante a partire dal periodo padovano
(1904). È lei la fanciulla del primo bacio, come scrive lo stesso
Boccioni nei suoi diari. Non si sa quanto dura il loro amore (forse
fino al 1912), ma è sicuramente un rapporto travagliato che si
sovrappone, a un certo punto, al rapporto sentimentale con la
scrittrice Margherita Grassini Sarfatti. Il nuovo amore lo coinvolge
sia fisicamente che intellettualmente. L’artista incontra la Sarfatti
nel 1909, molti anni prima che la stessa diventi l’amante di Benito
Mussolini! I due si conoscono al palazzo della Permanente di Milano,
lo stesso dove la “vergine rossa” nell’aprile 1926 organizzerà la
storica “Prima mostra del Novecento italiano”, il movimento
antagonista del futurismo. (…)
(…) L’amore, tuttavia, nonostante i successi con le donne, lascia
Boccioni profondamente disilluso. E soprattutto con un grande senso di
solitudine. L’artista cade spesso in crisi depressive, anche a causa
delle incomprensioni verso le sue opere e dell’insoddisfazione per il
proprio lavoro. Poco alla volta anche l’amore per la vita lascia il
posto alla pulsione di morte. Tormentato scrive nel 1912 all’amico
Gino Severini: “È terribile… io lotto con la scultura! Lavoro, lavoro,
lavoro e non so cosa do. È interno? È esterno? È sensazionale? È
delirio? […] Tremo! Intanto mi calmo… Se dovessi continuare su questo
tono non potrei che uccidermi. Certo la vita va diventandomi un
tormento insopportabile”. (…)
(…) Boccioni appartiene a quella schiera di artisti “totali”, che
vivono pienamente l’esperienza della vita dell’arte senza sconti né
scorciatoie, assumendone pienamente le contraddizioni e pagandone un
prezzo altissimo. Per lui la vita stessa è futuristicamente
compenetrazione di “visioni simultanee”. “Come è identico il movimento
in tutti campi del pensiero!”. (…)
Presentazione
La dinamo futurista.
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal
mare”,
1912-1925
Bruno Corà
Era del tutto prevedibile che l’anno ormai in corso avrebbe visto
l’attuazione contemporanea, se non proprio simultanea, di numerose
mostre ed eventi che, a vario titolo, avrebbero celebrato
l’anniversario della nascita ufficiale del Futurismo che, com’è noto,
si fa risalire alla pubblicazione del Manifesto di Filippo Tommaso
Marinetti sulla prima pagina del parigino “Le Figaro” il 20 febbraio
1909.
In tale quadro di ricorrenza, sono già state inaugurate le
significative mostre “Le Futurisme à Paris” presso il Centre Pompidou,
che chiude i battenti in questi giorni per riaprire a Roma e poi a
Londra in un’itineranza che si concluderà in autunno, e la più recente
mostra “FUTURISMO 100” presso il MART di Rovereto. Ma nel corso delle
prossime settimane e nei mesi successivi sono attese altre importanti
mostre dedicate al Futurismo, a Palazzo Reale a Milano e in altre
località e musei europei. Non sono mancate mostre, anche di un certo
rilievo, in gallerie private italiane e altre se ne attendono, andando
a comporre un quadro di avvenimenti che già da solo appare eloquente
per sottolineare l’importanza di quel movimento artistico
d’avanguardia, la cui eco non sembra essersi esaurita, sia
nell’immaginario popolare, sia tra i cultori d’arte, i collezionisti,
gli studiosi, il pubblico appassionato e aperto alle esperienze
estetiche maggiori del secolo XX.
All’interno di questo vivace e composito tessuto propositivo, come
pure attorno ad esso, non sono mancate le polemiche, le prese di
posizione, talvolta anche accese, mirate a contenere e proporzionare
la qualità degli eventi o la discussa dirompenza che il Futurismo
obiettivamente ha suscitato, almeno negli anni in cui si manifestava,
e poi successivamente, non smettendo di far parlare di sé, sia
l’opinione pubblica sia quella critica e degli addetti ai lavori.
Entro questa temperie, s’inserisce la mostra dedicata e curata da
Daniela Palazzoli a un nucleo di disegni pressoché inediti di Primo
Conti, pittore fiorentino, protagonista e testimone degli anni
ruggenti del Futurismo, punto di riferimento, ancorché giovanissimo,
per Umberto Boccioni, ma anche per altri pittori, scrittori e poeti
attivi negli ambienti dove crebbero e si diffusero, come a Milano e
Roma, le parole d’ordine, i proclami, le riviste, le opere e le
‘serate’ dell’incendiario gruppo capeggiato da Marinetti, in pochi
anni divenuto una vera ‘società artistica’ dal forte impatto
provocatorio e sprovincializzante.
La longevità di Primo Conti e la sua inquietudine culturale hanno
fatto sì che nel corso degli anni Settanta io lo potessi incontrare,
in più circostanze, durante lo svolgimento di avvenimenti espositivi
tenutisi a Firenze, ma anche in ambienti a lui più familiari. La
frequentazione infatti delle sue due figlie, Maria Gloria e Maria
Novella, entrambe impegnate nell’attività artistica con diversi
interessi, mi permise in quegli anni di scambiare con lui alcune brevi
conversazioni, rivelatrici della precoce e duratura tensione artistica
che lo aveva accompagnato sino a tarda età.
A Firenze, a lungo egli aveva contribuito a rendere dinamica la vita
culturale poiché, come è stato opportunamente sottolineato dal
curatore della mostra, il connubio arte-vita aveva costituito per lui
la più efficace garanzia di riuscita del credo e della prassi
futurista.
Se si legge il libro autobiografico di Conti La gola del merlo (1983),
si comprende appieno la sua relazione artistica con Boccioni e in
generale il lievito che Conti stesso rappresentò in una città come
Firenze, già attraversata dal vento del Futurismo e dai suoi
protagonisti.
Per queste ragioni e per la singolarità della proposta critica ho
ritenuto assai felice la circostanza di poter coniugare questo evento
con quello della mostra da me ideata, che rende omaggio a Umberto
Boccioni nel centenario del Futurismo; in tal modo promuovendo
un’occasione e un’offerta culturale originale che non mancherà di
fornire dati interessanti provenienti dalle opere in gran parte
pre-futuriste dei due artisti, nonché da interessanti documenti,
affiancati per la circostanza, non privi di preziosi spunti per
approfondire una stagione dell’arte della maggiore avanguardia
italiana tuttora influente.
Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
Città di Lugano
“… E
poi l’arte incontrò la vita”
Primo Conti e i disegni per Harriet Quien 1912-1925
Daniela Palazzoli
(estratti del saggio in catalogo)
(…) Il 20 febbraio 1909, data dell’uscita del primo manifesto del
futurismo su “Le Figaro” di Parigi, Primo Conti era troppo giovane per
firmarlo e di questo sempre si crucciò moltissimo. Tuttavia leggendo i
resoconti di allora, e le sue memorie autobiografiche elaborate
assieme a Gabriel Cacho Millet, sembra che l’euforia e le diatribe
appassionate che circolavano anche a Firenze intorno alle idee nuove,
abbiano contribuito a focalizzare i suoi entusiasmi giovanili
sull’arte, distraendolo da passatempi considerati più consoni, e
sicuramente più condivisi dai ragazzi della sua età. A favorire la sua
precocissima concentrazione sia sulla pittura che sulla poesia e sulla
musica - già a undici anni cominciò a realizzare delle prove creative
interessanti - contribuirono sia l’atmosfera di coinvolgente
proselitismo che circondava le manifestazioni futuriste che la
caratura intellettuale ed il coraggio umano di molti dei protagonisti
di questi incontri, che non esitavano a mettersi in gioco in un clima
di accesa bagarre da stadio. Penso in particolare alla Grande Serata
Futurista del 12 dicembre 1913 al Teatro Verdi. Primo Conti,
sgattaiolando fuori di casa, vi si recò di nascosto, assieme ad Ottone
Rosai, che aveva qualche anno e più libertà d’azione di lui. I due nel
buio vedono affollarsi all’ingresso un assembramento di persone con in
braccio misteriosi fagotti e pacchetti da cui spuntavano ortaggi e
oggetti vari: scoprirà poi che questa è quella che, in gergo, oggi,
sarebbe la classica “curva” da stadio, i tifosi scatenati e senza
remore di una delle due parti in gioco. Il teatro è strapieno. Fra i
fischi e il baccano generale i futuristi si presentano calmi ed
elegantissimi - la parte dei bohémiens la facevano i passatisti,
mentre il “futuro” indossava rigorosi abiti scuri -. Dal proscenio
fioccano sulla sala gli insulti di Papini, mentre un impassibile
Umberto Boccioni esordisce dicendo: “M’accorgo che in questo teatro vi
sono più carogne che intelligenze! Vi parlerò del dinamismo plastico”.
Cosa si vuole di più? C’era tutto il necessario per conquistare la
mente e il cuore di un ragazzo: la trasgressione della fuga notturna,
l’atmosfera elettrizzante, lo scontro attraverso cui mettere alla
prova e dare forma alle proprie capacità e al proprio coraggio, e per
finire la contrapposizione di idee e di valori “in stile guelfi e
ghibellini”, impersonata da eroi - intellettuali ma anche prestanti,
decisi, e senza peli sulla lingua - che si battevano con stile per le
proprie idee. Conti diventa una presenza costante e rispettata della
vita culturale che, fra i numerosi stimoli, poteva contare su delle
personalità capaci di interpretare l’atmosfera dell’epoca, e di
rendere Firenze uno dei crocevia di passaggio dei grandi protagonisti
della cultura di punta. Fra questi ricordiamo Picasso che si accorge
per primo di condividere con Conti gioie e dolori di una devozione
precoce, e di successo, alle arti. Picasso - che aveva cominciato a
recarsi a Roma al seguito dei Ballets Russes di Diaghilev - passa da
Firenze nel 1917 in occasione di uno spettacolo dei balletti al teatro
Politeama. Alberto Magnelli, che lo accompagnava, va a cercare Conti
nel foyer del teatro: Picasso aveva visto un suo quadro e voleva
parlargli. E le sue prime domande sono appunto sull’età, e su quando
ha cominciato a dipingere. E quando Conti risponde: “a undici anni”,
Picasso scatta: “Avete sentito? Anche lui è un mostro”. Finalmente
aveva trovato uno come lui! Un “mostro” che, come lui, sapeva cosa
significava sopportare il peso dello stupore, e il senso di estraneità
degli altri di fronte alla loro diversità. (…)
(…) La ricerca di crescita di Conti si concentra essenzialmente sulle
arti - arti visive, ma anche musica, poesia e letteratura, con grande
vastità di informazione e di visione degli esiti europei più
interessanti e positivi. Lo testimoniano i materiali da lui raccolti,
e in seguito conservati nella Fondazione dedicata al suo nome sulle
avanguardie storiche. (…)
(…) Temperamento riflessivo, egli amava esplorare e conoscere, ma
anche riflettere e approfondire meditando pro e contro, in modo da
avere una visione chiara del progresso e della effettiva portata delle
proprie ed altrui azioni. Nelle arti visive il suo è un processo di
costruzione lento e meditato che mira a fare avanzare la costruzione
del proprio linguaggio creativo attraverso una spola, un dialogo ed un
confronto fra la realtà che lo circondava, i vari modelli che
incontrava lungo il suo percorso, e la propria individualità che
tendeva a ristrutturarsi costantemente rispetto a un ideale di
perfezione. (…)
(…) Lo strumento ed il linguaggio principe della sua esplorazione - il
diagramma della sua mente che pensa, e che lungo il percorso creativo
compone le situazioni e le forme donando loro senso ed emozioni - è il
disegno. La sua matita è il prolungamento del suo occhio e della sua
mente: fissa ed esplora con calma e profondità i singoli aspetti e
l’insieme di situazioni ed oggetti, concentrandosi su un campo visivo
che inquadra al massimo la figura intera e, molto più raramente, un
gruppo di persone o una scena afferrabili, nella realtà, con un solo
sguardo fisso. I quadri di solito articolano e coordinano queste
scene, facendo perno su un tema caratterizzato da una figura centrale,
intorno a cui si compongono diverse situazioni coerenti col soggetto,
che erano già state studiate, elaborate e sintetizzate nei disegni.
Anche se il disegno nel complesso è un vero bisturi capace di incidere
in una realtà variegata e complessa, infatti, ogni singolo disegno è
concepito e realizzato come un’opera autonoma che fissa e riassume le
sue idee ed emozioni sul soggetto che l’artista sta esplorando.
Attraverso le opere della collezione Quien, concentrate nel periodo
fra il 1912 e il 1925, possiamo così seguire sia la maturazione del
segno e del linguaggio che quella umana dell’artista.
Votato all’incontro con l’altro ma anche all’introspezione, Conti
concepisce il tema dell’autoritratto sia come un soggetto d’elezione
per conoscersi meglio, che come strumento per farsi riconoscere dagli
altri. (…)
(…) Con l’Autoritratto allo specchio egli ci si offre mentre esplicita
il suo metodo di lavoro: lo sguardo è impegnato nell’intensità della
concentrazione e dello scandaglio ed è in presa diretta con la mano
che impugna il suo strumento di lavoro, vigile nell’afferrare e
fissare quanto osserva.
Sono diverse le figure femminili che entrano assai presto a fare parte
del suo orizzonte figurativo. A parte la madre che ritorna spesso
nella sua opera, egli trae i suoi soggetti sia in presa diretta dal
vero che attraverso dei modelli in posa. È attratto dal tema della
toilette dopo il bagno che agli inizi tratta in modo pudicamente
realistico. Con l’avanzare delle sue ricerche in direzione del
futurismo, studierà il corpo femminile anche con l’intento di mettere
in risalto il gioco delle tensioni e delle contrapposizioni muscolari.
(…)
(…) L’evento catalizzatore che nel tempo lo aiuta a trasformarsi da
“futurista clandestino”, come egli si definiva, in un artefice che
riesce a cogliere e a declinare l’essenza dinamica di un oggetto -
integrandola sia con la struttura architettonico-compositiva del suo
disegno che con il senso concettuale ed emotivo del soggetto - è
l’incontro con Umberto Boccioni nel 1914. L’occasione dell’incontro
con lo scultore è data dalla mostra che gli dedica la libreria
Gonnelli di Firenze. Conti e l’amico Ugo Tommei sono elettrizzati
dalla possibilità di allestirla tanto più che Conti ha anche
l’opportunità di restaurare uno dei gessi dello scultore che, a causa
della fragilità, si era rovinato. A gettare un seme duraturo,
destinato a influenzare nel tempo la sua idea dell’arte, è l’incontro
con Boccioni stesso avvenuto qualche giorno dopo l’inaugurazione.
Boccioni arriva di primo mattino, ancora in abito da sera e calzato di
scarpette da ballo, e chiede a Conti di accompagnarlo a visitare i
Prigioni di Michelangelo. Nel corso della visita fa sentire a Conti
l’affinità fra la lotta dei corpi messa in scena dai Prigioni per
svincolarsi dalla materia bruta, e manifestarsi nella loro essenza di
proiezione fisica di una entità spirituale, con l’intuizione delle
linee-forza futuriste. (…) Conti si rende conto di avere partecipato
ad una avventura di iniziazione “fuori misura per un ragazzo”. Tanto
più che, accanto all’esperienza della lotta immane dei Prigioni per
liberarsi dalle catene del corpo, vi è appena stata per lui anche
quella delle sculture che Boccioni realizza con materiali fragili e
deperibili come vetri, cuoio, latta, cartone e il gesso perché
“l’opera d’arte per essere viva deve aver la stessa sorte dell’uomo e
subire, come l’uomo, la malattia e la morte”. (…)
(…) Un aspetto importante della lezione futurista si vede anche in
quei disegni - soprattutto di volti, come in ‘forma-luce’ - in cui è
la luce a venire frantumata e riutilizzata secondo angoli di
rifrazione e riflessione inediti che reinventano il volto, sostituendo
alla descrizione una mimica dinamica e lirica.
Il tema delle profughe evoca la guerra che, nel frattempo, alcuni
artisti vivevano già di persona, mentre altri, come Conti, dovevano
ancora sperimentarla. (…)
(…) I disegni degli anni 1919 1920 rivelano suggestioni disparate. Da
un lato egli è ancora memore della scomposizione futurista che applica
in disegni come Uomo con la pipa e donna di stoppa contrapponendola
alla staticità della posa. Le gambe e i busti si animano di giochi
geometrici e di sventagliate dinamiche, mentre le figure se ne stanno
tranquillamente sedute. Volto, il disegno che appare sulla copertina
della monografia di Corrado Pavolini, La Pittura di Primo Conti,
Edizioni del Centone, Firenze, 1919, associa con ironia la geometria
del naso con la forma trapezioidale del ritaglio di carta su cui è
disegnato. Compaiono anche disegni integrati in modo spesso grottesco
e scanzonato con collage di carta da giornale. L’adozione dei portati
della comunicazione della vita quotidiana, popolare e pubblica, sembra
qui presentarsi come uno stimolo a trasgredire con pose disinibite e
stilizzazioni del corpo in chiave ironica, antitetiche alla serietà e
la concentrazione delle figure di un tempo. Si veda il Ritratto
Femminile del `19, la Danzante nuda e la Figura femminile con stella -
una immagine che potrebbe essere stata pensata in relazione al dipinto
Eros del 1919 - che esibisce con stile da cabaret una stella rossa sul
capo. (…)
(…) Nei suoi disegni, come Studio di deposizione e I pietosi, entrambi
del 1923, allora, compaiono iconografie più classiche di natura
religiosa, intese come modi di ricreare, illustrandole con
spontaneità, storie religiose connesse col ciclo de Le Parabole. È a
questo punto che - ancora alle prese con i dubbi e le inquietudini
suscitati dalla speranze infrante di un’epoca e dall’avvento di
soluzioni politiche assai distanti dai suoi ideali -, che non gli
consentivano di trovare una via d’uscita e di imboccare strade nuove
soddisfacenti egli conosce una donna destinata a svolgere un ruolo
assai importante nella sua vita, e cioè quello di farlo maturare
attraverso un amore destinato a finire in un modo drammatico. Nei
quattro anni durante i quale si sviluppa, questo incontro amoroso gli
offre la possibilità di rivedere i suoi ideali di aspirazione alla
modernità alla luce di una donna amata, positiva, viva, reale,
industriosa, presente nella vita quotidiana di ogni giorno. Essa
costituisce un esempio di modernità realizzata nella vita, di gran
lunga più lungimirante, cosmopolita e corredata di radici globali del
più roseo dei sogni e delle opere reperibili nelle avanguardie.
Harriet Quien, vivendo nella vita vera, assieme a lui, lo costringe -
attraverso il continuo processo pensiero e azione postulato da
Boccioni (questo sì) - a trasformare lentamente il suo modo di pensare
e di agire.
Il balzo alla ribalta di Harriet - che voleva essere chiamata ‘Harry’
al maschile, “perché non è il sesso a definire l’identità delle
persone” - attraverso questa collezione di disegni, può consentire ad
esempio di rivedere e chiarire per confronto molti aspetti ancora
irrisolti del futurismo - come il ruolo delle donne nel movimento, e
nella vita - alla luce di un caso davvero contemporaneo ed attuale dei
modi di evolvere della nostra società globale. (…)
(…) Non furono tanto le incomprensioni personali quanto quelle delle
due famiglie a porre fine all’amore fra Primo Conti ed il suo primo
grande amore giovanile Harriet Quien.
Nella lettera, conservata alla Fondazione Conti, con cui egli la
saluta per l’ultima volta, Primo Conti dimostra di avere conquistato
la maturità del rapporto di una continuità fra arte e vita che,
assieme alla creazione e all’agire, contempla anche la malattia e la
morte, la poesia e l’amore.
“Gentile e buona amica, …ma lei non credeva, e non crederebbe neppure
ora, se io le dicessi queste cose. Perché crede che la vita sia una
cosa e la poesia un’altra.
E sono una cosa sola”.
Breve storia della Villa Malpensata e del Museo d’Arte della Città di
Lugano
La Villa Malpensata, costruita verso la metà del XVIII secolo è oggi
la sede del Museo d’Arte della Città di Lugano.
Nel 1845, dopo varie trasformazioni e ampliamenti, la Villa divenne
proprietà della famiglia Caccia. Nel 1893, all’atto della sua morte,
Antonio Caccia, scrittore e collezionista d’arte, già diventato erede
della Villa, la cede, insieme ad opere ed oggetti artistici, alla
Città di Lugano, con la richiesta di vederla destinata ad ospitare un
museo.
Nel 1903 la Città accetta il lascito Caccia con l’impegno di istituire
nella Villa Malpensata un museo d’arte. Tale intenzione, dopo alterne
vicende, trova esito con il restauro trasformativo della Villa,
avviato nel 1967, al fine di ottenerne un vero e proprio museo.
Dopo l’apertura avvenuta nel 1973 e fino al 1990, il Museo della Villa
Malpensata accoglie un centinaio di episodi espositivi, diversamente
concepiti e allestiti. Ulteriori restauri sopravvenuti dopo il ’90 e
un diverso orientamento espositivo a partire dal 1992 avviano una
diversa fase: la Villa Malpensata assume la denominazione di Museo
d’Arte Moderna divenendo sede per esposizioni temporanee dedicate,
fino al 2007, all’arte del XX secolo con particolare attenzione al
filone figurativo della pittura espressionista.
Dal 2008, con l’avvio a Lugano del Polo Culturale la Villa Malpensata
assume la denominazione di Museo d’Arte. La nuova identità è rivolta
ad esprimere nuovi criteri e concezioni dell’attività espositiva,
nell’ottica di favorire relazioni attive con la rete museale esistente
a Lugano, nel suo territorio ed oltre; con il Museo d’Arte si apre la
nuova stagione dell’istituzione che, nel 2012-2013, porterà
all’apertura del grande Centro Culturale della Città di Lugano.
Il
Polo Culturale e il suo futuro Centro
Il «Polo Culturale» identifica una rete di soggetti istituzionali che,
all’insegna di un indirizzo culturale rispondente a un progetto
condiviso, agiscono in modo coordinato. Una forza propulsiva che è
stata immaginata, sin dal suo costituirsi, per esprimere e valorizzare
tutto il territorio. Immaginiamolo pure come una mano le cui cinque
dita - la musica, il teatro, l'arte moderna e contemporanea, la storia
e le altre culture - si muovono di concerto e con un fine comune.
Bisogna, dunque, con chiarezza sin d'ora distinguere fra il «Polo
culturale» e il grande edificio del «Centro culturale» che si
inaugurerà nel 2013. Il «Polo» determinerà l’identità e l’azione
futura di quel «Centro» di grande importanza e complessità in un clima
di stimolanti relazioni internazionali.
La decisione di edificare nello spazio adiacente all'ex Albergo Palace
il «Centro culturale» è l’esito di un processo che, negli anni, ha
visto il Comune di Lugano promuovere in modo crescente la cultura, per
innalzare la qualità della vita del cittadino e la realtà urbana, a un
livello nazionale e internazionale. Il «Centro» sarà, dunque, il
contenitore di eccellenza delle attività che riguardano la musica, le
arti visive e sceniche.
Nel «Centro» confluiranno: il Museo d’Arte Moderna oramai diventato
Museo d’Arte, la Collezione permanente e altri importanti fondi che
costituiscono il patrimonio artistico della Città. A rafforzare
ulteriormente la nuova realtà museale sarà la presenza di una sezione
del Museo Cantonale d'Arte, istituzione con la quale saranno
sviluppati progetti espositivi di particolare rilievo.
Inoltre, il «Centro» sarà la sede di un grande teatro, in grado di
offrire nelle migliori condizioni, per gli artisti e per il pubblico,
una stagione organica di concerti e di proposte teatrali e anche
liriche di valore nonché la danza, che costituisce un settore in
costante crescita creativa.
Gli altri soggetti principali che contribuiranno a rendere il «Polo
Culturale» un vero e proprio laboratorio interdisciplinare, aperto
alla più ampia collaborazione in rete, sono: l’Archivio Storico, il
Museo delle Culture e Villa Ciani, sede di esposizioni a carattere
storico-artistiche nonché di attività espositive e di ricerca, in
sinergia con le istituzioni cantonali e federali.
Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
MASILugano
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