PER UNA
MICROSTORIA DELLA FILODRAMMATICA SANTO STEFANO DI TESSERETE, PIEVE
CAPRIASCA, CANTON TICINO
QUALE FUTURO PER LE COMUNITÀ FILODRAMMATICHE DELL’INSUBRIA?
Fra tutte le arti, la danza ed il teatro in particolare non
godettero mai di sincere simpatie da parte di chi di volta in volta
deteneva ed era espressione di potere.
Le compagnie dei teatranti furono disprezzate e bandite per secoli
dalle comunità cristiane dell’intera Europa. La promiscuità degli
attori, la loro gestualità, la troppa libertà con cui si muovevano
sulla scena insospettivano i benpensanti, i moralisti, i censori.
La rappresentazione pubblica per mezzo della commedia o della farsa
di vizi e di debolezze umane, la finzione ricreata di proposito
sulla scena, insospettivano tutti coloro che si sentivano
nell’obbligo morale di nascondersi dietro i paraventi del
conformismo e della decenza.
L’illusione del comico ben poco si addiceva al rigore, alla condotta
del “buon cristiano”: le provocazioni di mimi, di buffoni e di
pagliacci si dimostravano troppo poco rispettose delle autorità
costituite, ne minacciavano lo stesso potere, l’occulta capacità di
persuasione “spirituale” 1).
In altri termini, l’eccessiva libertà del corpo, oltre che della
parola dell’attore metteva in crisi i “buoni costumi” offendendoli
ed accusandone la loro “relatività” attraverso il “gioco” perverso
delle parti.
L’esistenza, in Capriasca, attestata nella prima metà del XX secolo,
di due filodrammatiche, la maschile e la femminile, è fenomeno di
costume sociale da ascrivere ad un’epoca di chiusura e di monopolio
tutto valligiano e clericale. Gli aspetti della vita morale,
culturale ed artistica delle pievi dovevano, infatti, sottostare,
chi più chi meno, al rigido magistero di un’oligarchia ecclesiastica
già allora percepita come piuttosto anacronistica (c’era chi
prestava ancora giuramento di fedeltà alla Santa Sede, che nel
lontano 1864 aveva condannato il liberalismo attraverso “Il
Sillabo”) . Un tale spirito di rigidità morale è, forse, da far
risalire nientemeno che alla pastorale tridentina e
controriformistica d’un san Carlo Borromeo molto attivo e celebrato
nella Capriasca ambrosiana dei secoli scorsi.
Nel 1948, la neocostituita filodrammatica “mista” di Santo Sfefano è
costretta a chiedere nientemeno che il consenso vescovile prima di
poter calcare le scene.
Uno dei più anziani attori della pieve, il professor Valerio Storni
di Sureggio, ricorda, inoltre, come fosse necessario il nulla osta
del Vescovo prima della rappresentazione della pièce “Adamo”,
prob.di F.Orioles e S.Bancheri, di forte significato morale.
Risale tuttavia al lontano 1937 il visto della Curia per
l’approvazione di un “mistero cristiano” dal significativo titolo di
“Protomartire” 2) (protagonisti rigorosamente maschili; alcune
vedove ridotte a semplici comparse, nonostante l’importante funzione
liturgica da loro esercitata nel contesto delle chiese primitive).
Ne sono autori, don Santino Cassina e don Carlo Mondini, prevosto:
due sacerdoti operosi in Capriasca negli anni Venti e Trenta.
In effetti, la Filodrammatica fu fondata nel 1922, subito dopo la
costruzione del nuovo oratorio. Così scriveva nel 1962 il signor
Dario Quadri ripensando alla prima recita: “Il nostro regista di
allora, don Carlo Mondini, prevosto, faticò a convincere tutti che
le parti le avrebbe distribuite lui…Si scelse il lavoro “Le
Pistrine”, grande dramma in cinque atti che rievocava il martirio
dei primi cristiani oppressi dagli imperatori di Roma, del sacerdote
G.B. Lemoyne e, come chiusura, il bozzetto “Satana”. Rispolverando
le locandine di ben ottantacinque anni d’attività, troviamo drammi,
commedie, farse, rivistone, operette, fiammate patriottiche come
quel “Guglielmo Tell” degli anni Venti, rievocazione storica nello
spirito dell’epoca.
Il gruppo ha lo scopo di presentare alla popolazione lavori
artistici, educativi e nel medesimo tempo ricreativi; inoltre di
appoggiare finanziariamente la parrocchia.
Il parroco era sicuramente una figura importantissima, in quanto
faceva da supervisore ed aveva il diritto di vietare una recita se
lo riteneva opportuno. Fino al 1982 fungeva anche da cassiere. Col
passare del tempo il ruolo si è un po’ modificato lasciando più
spazio agli attori.
Il Comitato della Filodrammatica Santo Stefano deve, purtroppo,
inchinarsi fino agli anni Sessanta per ottenere dal “signor
Prevosto” la “paterna” approvazione, dopo attenta lettura, di ogni
copione sottopostogli prima delle prove.
L’asservimento alle direttive pastorali della Curia è, tuttavia, un
aspetto della mentalità dominante in molte valli del Cantone,
contraddistinte da un clima di intolleranza politica e di
schieramenti partitici facilmente inclini all’esclusione di chi non
stava dalla parte giusta, di chi non si mostrava docilmente
intruppabile. Insomma, un ministero tutto clericale che ben
volentieri si appoggiava ad un potere “conservatore” che sentiva la
necessità di reggersi su operazioni di subdola costrizione
personale, nonché di prestarsi attraverso il più spudorato
clientelarismo a forme di velata intransigenza ideologica.
In passato si svolgevano sei rappresentazioni ordinarie all’anno.
Fra le opere che hanno riscosso maggior successo vanno ricordate,
nel 1959, “L’altro figlio”, atto unico di Pirandello, con la
partecipazione del regista della RSI dott. D’Alessandro; nel 1961
“Luce a gas”, giallo con il quale si era partecipato ad un concorso
cantonale vincendo il primo premio per la miglior scenografia grazie
alle doti artistiche di don Stucchi; “La farsa dell’impiccato”,
commedia che era molto piaciuta soprattutto per le uscite impreviste
di Pio Clementi, portata in scena nel 1964 e, nel 1965, per i giorni
di carnevale, il “Rivistone nostrano”, che aveva riscosso un forte
successo grazie agli improvvisatori Heini e Danilo.
All’inizio degli anni Sessanta, la Santo Stefano, che si avvalse
della collaborazione musicale di don Angelo Moresino, della Corale
femminile e del Coro delle voci bianche, aveva invece portato alla
ribalta ben tre operette: “Volendam”, prob. di Leon Dadmun e
Augustus C Knight; “Nel regno del tempo” e “Zingari, che tipi!”.
Ciò nonostante, in un clima di chiusura e di velata intolleranza,
tutto quanto sapeva di nuovo e prendeva le distanze da certa
tradizione, non poteva di certo godere consenso e appoggio
disinteressato.
Le poche voci dissonanti e “alternative”godettero, in effetti, di
vita breve: le direttive conciliari stentavano, tra l’altro, a farsi
strada nello stesso cantone, e per molti aspetti non furono che una
veloce cometa di passaggio nel millenario cielo della Chiesa. 3)
Fortunatamente, gli anni Sessanta e Settanta, per l’esemplare regia
di Alberto Canetta, portano a Lugano “El nost Milàn” di Carlo
Bertolazzi, un dramma dai toni veristi di miseria popolare e
corruzione dei potenti; un’altra Compagnia ci permette di conoscere
“L’Arialda” di Giovanni Testori, una commedia d’impronta
neorealistica e dai toni molto espressionistici.
Non va, tuttavia, dimenticato che i valori della “laicità cristiana”
tanto riconosciuti dall’ultimo Concilio non possono escludere la
trascendenza del “sacro”, del “rituale”, del “simbolico”: fenomeni
che appartennero per millenni e che per millenni ci distinsero dal
mondo più istintivo degli animali.
I valori dell’Umanesimo cristiano, per esempio, se fossero oggi
recuperati in una prospettiva storica e sociale, potrebbero
rispondere ancora dignitosamente a quelle “eterne” domande insite
nel cuore stesso dell’uomo.
Valori in gran parte perduti nel tempo, soprattutto nel corso del XX
secolo, ma che costituirono, anche per le nostre valli, un punto di
riferimento sicuro, un’identificazione in un territorio dell’anima
che aveva permeato l’esistenza di migliaia di piccoli imprenditori,
d’industriosi artigiani, di laboriosi braccianti.
Una chiesa umile, laboriosa, minore, dunque, ma che aveva svolto
l’importante funzione di cemento unificatore della comunità
cristiana di Capriasca.
Ad onor del vero, dal 1971 al 1973, la Filodrammatica Santo Stefano
gode dell’importante collaborazione del “Teatro dei Nuovi” guidati
da un professionista del calibro di Adalberto Andreani e da un
ottimo regista come Pietro Aiani.
Nel 1971 si porta così in scena un classico del teatro americano,
“Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams, seguito da “La
fastidiosa”4) (un tema universale, quello della coscienza, o
“fastidiosa” che giornalmente si ignora, si umilia, si calpesta,
fino a sopprimerne del tutto la voce) dell’italiano Franco Brusati:
due autori, insomma, di chiaro impegno sociale. Il 1972 apre con il
dramma “Un tale chiamato Giuda” di Puget e Bost (magistrale ed
indimenticabile l’interpretazione di Andreani) 5) seguito, nel 1973
da “Un caso fortunato” del polacco Slawomir Mrozek . Ancora nel 1973
la preziosa collaborazione fra le due compagnie sforna un classico
del teatro dell’assurdo, “Il calapranzi” di Harold Pinter,
unitamente a “Cecè” di Pirandello, la storia di un degno
rappresentante di quel sottobosco di favori e di quel clima
clientelare che a Roma, agli inizi del XX secolo, era diventato
abitudine di vita.
Purtroppo, l’Assemblea della Santo Stefano, nel 1973, decide di non
poter più collaborare con “I Nuovi” esprimendo il vivo desiderio di
voler proseguire nella propria attività tradizionale. La nostra
filodrammatica perde in tal modo un’occasione di apertura e di
rinnovamento. Forse per una forma tutta provinciale di
autocompiacimento esclusivistico, forse per un velato timore di non
potercela più fare osando un cartellone più impegnativo del solito,
la Santo Stefano assisterà negli anni successivi a un lento ma
inesorabile decadimento.
L’Oratorio parrocchiale, che durante il periodo bellico fu anche
caserma per gli zappatori, è ormai piccolo, malandato e umidiccio.
Si pensa al restauro.
Il 29 settembre 1979 la nuova Filodrammatica inaugura la sala
rinnovata e ampliata con “La Smemorata” di Emilio Caglieri,
commediografo, interprete del teatro popolare e leggero. In
occasione della Rassegna delle filodrammatiche, organizzata dal
“Giornale del Popolo”, arriva in passerella finale a Tenero, nel
giugno 1980, con “Voce nella tempesta”, dramma del romanticismo
anglosassone di Emily Brontë nella traduzione di Beppe Fenoglio, un
bel lavoro di recitazione, scenografia, sonorizzazione e costumi.
Seguirà, nel 1981, “La sacra fiamma” di William Somerset Maugham.
Eppure, ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, eravamo
spettatori di una sensazionale riscoperta del mondo e della cultura
autenticamente popolare. La stagione 1991/1992 del Piccolo Teatro di
Milano metteva in scena il capolavoro di Francesco De Lemene, “La
sposa Francesca”, interamente nel dialetto di Lodi e per la sapiente
regia di Lamberto Suggelli. A questo proposito non va dimenticato
l’apporto di alcuni studiosi di filologia lombarda come Dante Isella
che recuperano opere in dialetto e le fanno conoscere al grande
pubblico. “I consigli di Meneghino” di Carlo Maria Maggi, per
esempio, così come la suddetta opera del De Lemene ci fanno
riscoprire la capacità di guardare le cose come sono, senza
aggiungere o togliere niente. La grande simpatia, la profonda
predilezione per il mondo degli umili fanno rientrare tali autori
tra i fondamenti stessi della cultura lombarda ed europea del ‘700.
Ciò nonostante, sul finire del millennio, le mutate condizioni di
vita dei Capriaschesi, la perdita della dimensione territoriale
della cultura, una diversa e per certi aspetti più “alienante” e
costrittiva organizzazione del lavoro mettono definitivamente in
crisi la nostra Filodrammatica.
Ma non c’è dubbio che l’impossibilità di “strumentalizzare” le
contemporanee nuove forme d’espressione a fini politici ha pure
contribuito al grave impoverimento dell’odierno linguaggio teatrale
amatoriale.
Privato di nuovi contenuti “morali” più consoni ai drammi della vita
quotidiana, lo scadimento a forme d’intrattenimento facile e
leggero, preferibilmente comico e dialettale (non escluse punte di
trivialità “perbenistica”quasi sempre ben pagante) le
filodrammatiche ticinesi e lombarde pagano, oggi, le amare
conseguenze di un’epoca di velate censure e di subdoli tentativi
d’indottrinamento clericale e partitico del cosiddetto “elettorato”
cristiano.
Certo atteggiamento autolesionistico delle nostre Compagnie che
all’oneroso ”impegno” di critica sociale preferiscono offrire il
fianco alle vaghe sirene del “populismo”, impediscono,
probabilmente, in un contesto oratoriano, la realizzazione di
copioni che si rifacciano a certi valori “progressisti” come il
sindacalismo, le ingiustizie sociali, il diritto al lavoro, una più
equa ridistribuzione della ricchezza. Eccezione più unica che rara,
la messa in scena di alcune interessanti commedie in dialetto di
Fernando Grignola 6) che, fra l’altro portava in scena politicanti e
disoccupati ( “Ul bosch dal dinosauro” nel 1981; “Füm in cà”, 1982;
“La cà dal runch”, 1983; “Brava gent”, 1986). Sponsorizzata dal
Circolo Culturale Migros, la commedia “Füm in cà”, nell’autunno
1984, può godere di una tournée nella Svizzera Italiana.
Ma quante nuove censure dovrebbe sopportare il capocomico che
volesse portare in scena divorzi, tossicodipendenze, fondamentalismi
religiosi, rivendicazioni femminili? Come potrebbe essere bandita,
per esempio, un’opera teatrale dell’oriunda Alfonsina Storni sul
“machismo”? Una farsa di Gabriele Alberto Quadri, “I mercanti del
tempio” sull’inconfessabile quanto vergognoso malcostume d’aver
rubato e d’aver svenduto a buon mercato l’arredamento e gli oggetti
sacri delle nostre chiese di montagna?
Sul versante di quella che fu l’”educazione del popolo” di
fransciniana, o meglio di battagliniana memoria, le ascendenze
laiche e radicali indussero alcuni Capriaschesi a preferire, già
nell’immediato Dopoguerra, la nuova cultura cinematografica ritenuta
più libera da costrizioni clericali e più aperta alle tante
sollecitazioni del mondo.
Ciò nonostante, anche da noi non mancarono tentativi di asservimento
a quella che allora si riteneva ancora “cultura dominante”:
pregiudizi, censure, anatemi e prediche infuocate non riuscirono,
per fortuna, ad imbavagliare e a distogliere completamente il
“popolo di Dio” dalle immondezze del cinema tacciato d’
“americanismo” se non addirittura di perniciose infiltrazioni
anticlericali e massoniche.
Negli ultimi anni la tanto celebrata “libertà di pensiero e
d’espressione”, prerogativa, pungolo e vanto delle nostre secolari
democrazie, sembra stia perdendo sempre più senso critico di fronte
all’invadenza mercantilistica di certe pratiche economiche.
Detto altrimenti, per il mercato dei “prodotti” culturali, pare che
i grossi investimenti a livello di fornitori internazionali, siano
di gran lunga più interessanti e redditizi che non quelli a livello
regionale.
Di conseguenza, manifestazioni e spettacoli tendono ad assumere i
connotati più di un’astratta e stereotipata sottocultura di massa,
che non quelli di una cultura del territorio più concreta e meno
globalizzante. In tal modo, un certo “populismo” pseudointellettuale
tenta di sostituirsi ad una più autentica “cultura popolare”. In
altri termini le filodrammatiche, che svolgevano un importante ruolo
di confronto e di divulgazione della cultura cosiddetta “alta”
stanno cedendo le armi ad una sottocultura televisiva molto
riduttiva, spesso compiaciuta per non dire virtuale.
C’è da dubitare fortemente che simili operazioni di alto bordo
possano aderire e connotare “realisticamente” un determinato
territorio contribuendo a formare di conseguenza un libero e civile
consenso politico. Lo stesso discorso valga per le imitazioni di
maniera dell’espressione popolare e dialettale, che scadono quasi
sempre nella volgarità gratuita e nella banalizzazione del
messaggio.
Stiamo purtroppo assistendo in modo piuttosto passivo ad un
confronto di mercati e di offerte culturali che tendono a
“colonizzare” quelle regioni deboli e precarie, che sembrano
incapaci di produrre e di imporre un proprio autentico messaggio
culturale.
Dove, infatti, non esistono più o si stanno progressivamente
perdendo molti riferimenti culturali “forti”, avanzano i cingolati
della globalizzazione.
Nel segno di un profitto che non ha più limiti morali e confini
nazionali, molti “prodotti artistici” contemporanei si stanno
vieppiù qualunquizzando, perdendo di conseguenza impatto critico sul
pubblico. È il caso degli adattamenti di pièce di provenienza
francese o italiana tradotti in dialetto. Evidentemente un tale
fenomeno mostra il fianco alla critica, non producendo che
ibridazioni fuori contesto sociale e storico: alla Labiche o alla
Feydeau, per intenderci! Anche se il malvezzo ha origini esterne
alla pratica delle nostre filodrammatiche, in particolare in sede di
fiction televisiva, si direbbe che la minoranza italofona della
Confederazione abbia quasi paura di identificarsi in testi più
coerenti e originali. Pensiamo, per esempio, al recupero di alcuni
fra i migliori drammi di Sergio Maspoli, di Enrico Talamona o di
Piero Tamò.
Parimenti il dramma borghese, particolarmente quello dei serial, può
diventare patetico, così come un tempo il dramma aristocratico
poteva suscitare ilarità negli spettatori.
Ciò nonostante, nel 1989, inizia l’attività del Teatro della Pieve,
che metterà in scena una tragedia capriaschese dell’XI secolo di
Gabriele Alberto Quadri, “Il testamento della signora Contessa”.
Come per tacito accordo, molti collaboratori faranno parte della
Santo Stefano, anche perché la tragedia illustra la più bella
leggenda della Capriasca. In realtà è un tentativo di spettacolo
multimediale, che coinvolge la corale parrocchiale, un gruppo
strumentale, alcuni solisti e che sperimenta effetti ottici,
rumorizzazioni e un diaporama d’accompagnamento delle diverse scene.
Il successo è tale che, per la sperimentata regia di Carlo Nobile,
sarà assicurato da repliche nel 1990 e nel 1991 per i Settecento
anni della Confederazione.
Nel 1998, Fausto Sassi, regista televisivo, porterà alla ribalta un
altro dramma dello stesso autore, “La nomina del Pievano”, episodio
quattrocentesco di corruzione e di malgoverno. Interessante la
stretta collaborazione della Corale Santo Stefano e della
Filarmonica Capriaschese; musiche del maestro Irlando Danieli del
Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. È, invece, del 2000 “Il
martirio di san Lucio” che si avvarrà della collaborazione della
Scuola corale della Cattedrale di Lugano diretta da Robert Michaels;
regia di Carlo Nobile. Infine, nel 2006, un mistero celtico “in
quattro stagioni”, “Le fontane di santa Lucia” avrà come cornice il
bosco di Narbeno. L’ottima regia di Pietro Aiani, riprendendo le
esperienze precedenti, collabora nuovamente con il Coro Santo
Stefano - Vos dra Capriasca, mentre le musiche sono del maestro
italiano Antonio Eros Negri.
Fra i registi che si sono succeduti alla guida della filodrammatica,
fra cui Nedo Fraccaroli e Giorgio Danese, va ricordato Carlo Nobile
7) che ne ha retto le sorti per ben una quindicina d’anni. Degni di
nota,”Voce nella tempesta” di Emily Brontö, di cui si è già detto;
“Trappola per topi”, un capolavoro di Agata Christie, ma anche del
gruppo S.Stefano che non esita ad andare a Londra per una
ricognizione d’ambiente; “L’ospite inatteso” ancora della
straordinaria commediografa-giallista Agata Christie, andato in
scena nel 1985 8) a cui seguirà “Non ti pago”, commedia brillante di
Eduardo De Filippo e “Donne in sciopero”, libero adattamento e
traduzione del nostro regista da “Les filles de San Priego” del
commediografo belga José Brouwers.
All’inizio degli anni Novanta, la filodrammatica sarà a Berna,
ospite della locale Pro Ticino, dove reciterà una pièce dialettale,
“L’età di vizi” di Natale Vanetti.
Nobile lascerà la Santo Stefano nel 1997. Tre anni dopo, a Milano,
si darà “La bottega dell’orefice”, una pièce di Karl Wojtyla,
commediografo polacco che prima di diventare Papa con il nome di
Giovanni Paolo II, avrebbe desiderato diventare uomo di
teatro…glorificando in tal modo, attraverso l’arte scenica, il santo
nome del grande Regista dell’Universo.
Livio Canonica di Bidogno fu, invece, l’attore che in quegli anni
seppe distinguersi per vitalità ed allegria, contagiando con la sua
istrionica bravura compagni di scena e pubblico. Con Canonica, che
recitava sempre nello schietto dialetto di Bidogno, la
filodrammatica riscosse innumerevoli successi in diversi teatri del
Cantone.
Carlo Antonini, Valerio Storni, Clara Testorelli ed Edgardo Campana
sono sicuramente da annoverare fra i veterani della filo. Numerose
pure le repliche dei diversi spettacoli. Con il ricavato delle
recite, la filodrammatica potrà perfino permettersi viaggi a Parigi
e a Roma.
Un diverso modo di concepire lo spettacolo si propone, tuttavia, di
conservare un suo specifico messaggio di provocazione volendo
stimolare giudizio e ragione a livello di coscienze individuali.
Meglio ancora se un simile messaggio affonda le proprie radici nella
memoria collettiva di un territorio culturalmente ben definito.
Riprendiamo pure il registro comico che contraddistingue tante
filodrammatiche, ma non scordiamoci che il “comico” è di per sé
dissacrante e demistificatorio. È il genere che mette a nudo le
ipocrisie del re, i pregiudizi, i conformismi e le corruzioni del
potere secondo l’adagio latino “ridendo castigat mores”. Prendendo
spunto dalla teatralità delle vicende umane, spesso soggette a
necessità “meccaniche” e rituali, richiama e riaccende in noi la
spontaneità espressiva della prima infanzia.
Certe scene, infatti, della tragicommedia ci fanno ridere pur
essendo profondamente tragiche nel contesto dell’azione generale.
Il riso suscitato dal comico diventa quindi un antidoto al vizio per
eccellenza, cioè all’illusione delle vanità del mondo. È perfetta
bacchettoneria, quindi, voler censurare le scene che rievocano
corruzione e comportamenti giudicati immorali. Come i farisei,
pericolosamente rigidi e privi di distacco autocritico, non possiamo
“purgare” i testi teatrali dei loro momenti pedagogico-catartici.
Poiché il registro comico, nella sua pubblica denuncia delle vanità,
scaturisce da una diversa esigenza del religioso, inducendo lo
spettatore ad una sana autoironia, ad una migliore coscienza di sé.
La più difficile evoluzione dell’equilibrista non traspare, forse,
dal sorriso imperturbabile del perfetto dominio di sé?
Gabriele Alberto Quadri
PIEVE CAPRIASCA, INVERNO
2006-2007 |
NOTE:
1) Illuminante a questo proposito il famoso romanzo “Il nome della
rosa” di Umberto Eco, che ben illustra la paura della satira, del
comico da parte della Chiesa medievale e del potere in genere,
benché già nell’antichità il teatro comico di Plauto costituisse una
novità e nello stesso tempo una sfida a certa rigidità repubblicana.
Interessante pure la problematica del mestiere d’attore sollevata da
Corneille nella commedia “L’illusion comique” (1636) oppure le
difficili condizioni di esistenza del teatro rinascimentale nella
Milano dei Borromei. Sempre in quest’ottica, va riscoperta la
funzione del cabaret nel XX secolo in difesa di libertà e
democrazia, in particolar modo nella Germania nazifascista.
2) L’ideologia ed il magistero della Chiesa preconciliare, che
trovarono la massima espressione artistica in quel “mistero sacro”
che desiderava esaltare le vicende del “Protomartire” santo Stefano,
patrono della Pieve, meritano ciò nonostante una particolare
attenzione “critica”.
Le migliaia di epigrafi cristiane della tarda romanità, ci rivelano,
oggi, uno stile di vita molto diverso da quello che influenzò
negativamente molte comunità del medioevo e dei secoli successivi. I
Vescovi, per esempio, erano sposati; le vedove pare godessero di uno
statuto speciale all’interno delle primitive comunità; al contrario
dei pagani, i primi cristiani non esponevano i neonati.
Tante comunità, dunque, meno misogine, una chiesa meno “puritana”,
più a misura d’uomo e sicuramente meno “clericale” ed autoritaria.
Uno stile di vita che perdurò felicemente almeno fino a Costantino,
l’imperatore che ufficializzò il ruolo politico del Cristianesimo.
Se pensiamo poi al vero e proprio sterminio, nel corso del medioevo,
delle comunità catare nel meridione della Francia: comunità che
seppero preservare, per molti aspetti, l’autenticità della vocazione
evangelica, ci rendiamo conto di tutta la violenza istituzionale e
“temporale” dei re e dei pontefici romani.
Nel vicino Piemonte, d’altra parte, furono parimenti sterminati i
Valdesi, comunità evangeliche a tutt’oggi attive in Italia.
In conclusione, nessuno ci vieta di pensare a piccole comunità
alpine e prealpine lontane dei grandi centri di potere, come ad
esempio la nostra, che vivessero diversamente, diciamo più
artigianalmente, i santi principi dell’Evangelo, sapendo mettere in
comune, per esempio, pascoli montani e attività legate alla
pastorizia nel segno di un’autentica solidarietà cristiana.
3) Significativa in questo senso la censura della prima opera
teatrale di Mario Luzi, “Pietra oscura”, dramma di rottura con le
direttive morali della Santa Sede, scritta nel lontano 1943, ma
portata alla ribalta da Fabio Battistini soltanto nel 1998, in epoca
cioè postconciliare.
4) È risultato che per mettere in scena “La fastidiosa” sono occorse
2450 ore lavorative suddivise tra quattordici persone: il che fa la
bellezza di 22 giorni di lavoro a testa. Presenze di pubblico nelle
due rappresentazioni: circa 450 persone.
5) “Dramma dell’intelligenza e dell’orgoglio intellettuale elaborato
con astuta finezza”: così il critico Vegas ha definito il lavoro. Si
tratta di un tentativo di rivalutare la figura di Giuda, di spiegare
cioè, pur senza giustificarlo, il gesto da lui compiuto in modo più
umano, anche se per questo occorre abbandonare, qua e là, la
narrazione dei fatti secondo il Vangelo. Riportiamo anche qui alcuni
giudizi della critica: “Il Gruppo teatrale I Nuovi di Tesserete si
afferma egregiamente in “Un tale chiamato Giuda”…”La regia ha
imposto esattamente l’allestimento scenico, il carattere dei
personaggi, la trama, le azioni e reazioni…raccogliendo tutto nel
momento finale”…”Gli attori e le attrici si sono totalmente fusi con
i personaggi loro affidati. Scene sobrie ed efficaci, luci curate al
massimo, sonorizzazione ben dosata, costumi semplici e precisi”…”Una
valida e interessante prova”.
6) “Grignola ripropone uno spaccato ben centrato del nostro modo di
essere oggi, qui. Poi, il suo è un dialetto pulito, senza il ricorso
ai doppi sensi, ad allusioni o volgarità (difetto, purtroppo, comune
a troppi media contemporanei). Fresco, spontaneo, usato come fosse
una lingua per riprendere situazioni locali ma non particolari o
ristrette. Il dialetto, e questo caso lo conferma, sa parlare
all’intimo delle persone.” Carlo Nobile, in un’intervista
rilasciata, nel 1987, al Giornale del Popolo.
7) “Il regista prende accordi con lo scenografo, con il responsabile
delle luci, il sonorizzatore e gli altri. È fondamentale la
collaborazione con un’équipe costante, un’armonizzazione tra i vari
ruoli. Io sono per la teoria dell’orchestra, tutti devono
collaborare secondo la loro parte. Questo non impedisce che in scena
ci sia il solista, il primattore che però sia il frutto
dell’insieme, ma l’importante resta il lavoro a scena chiusa, quello
effettuato prima, molto prima dello spettacolo.” Carlo Nobile, v.
nota precedente
8) Giuseppe Riscossa, critico teatrale, ebbe a scrivere su “Gazzetta
Ticinese” del 1 giugno 1985 che “…Quasi quarant’anni di
frequentazione delle sale teatrali ci hanno dato un indice…per
giudicare la validità dell’interpretazione di un giallo…Domenica
sera, a Tesserete, abbiamo visto due persone al vertice artistico
della vita teatrale della Svizzera Italiana spostarsi dal fondo
della sala verso le primissime file per poter vedere oltre che
ascoltare. Segno che tutto quanto facevano gli interpreti - la
positura del corpo, un’occhiata, un tremito del viso – era
indispensabile al racconto teatrale. Gli applausi… sono dunque
stati, sì, di simpatia, come sempre nella scena dei dilettanti, ma
anche di giusto riconoscimento di un preciso merito acquisitosi
dagli artefici dello spettacolo.”
FONTI DOCUMENTARIE:
Don Santino Cassina (parole) e don Carlo Mondini (musica) “Il
Protomartire – mistero cristiano”, copione stampato prob.a Milano,
1937 (con un’introduzione del Dr.Mino Verga)
Fiorenza Tamburini “La Filodrammatica Santo Stefano di Tesserete” in
Terra Ticinese, no.6, 1985
“Riscopriamo insieme: La filodrammatica Santo .Stefano di Tesserete.
A cura di Carlo Anselmini” in Mosaico, periodico della Scuola Media,
Tesserete, no.8, 1993
Numeri unici pubblicati in occasione del quarantesimo (1962) e del
cinquantesimo (1972) dell’Oratorio
Si ringraziano, inoltre, i registi Carlo Nobile, Pietro Aiani e la
signora Giuliana Fumasoli
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