Gli adoratori della croce SUL SIMBOLISMO DELLA CROCE Croce deriva dal latino crux, a sua volta,
collegato alla radice kar che significa «essere curvo» e che si
riferisce al sanscrito c’ar-kr-à, «ruota». Nella sua più comune
accezione, la croce era formata da due grossi pali di legno, di cui il più
corto era sovrapposto ad angolo retto all’altro che era confitto a terra,
così da legarvi o inchiodarvi i condannati a morte. La sua maggiore
notorietà viene dall’essere stato lo strumento di supplizio di Gesù Cristo e
di essere diventata, per tale motivo, il simbolo della fede cristiana. (…)
card. Georges Cottier, OP
S UI KHATCHKAR («CROCI DI PIETRA») E L’ARCHITETTURA ARMENABaykar Sivazliyan I khatchkar nella modernità. Segno cristiano dell’identità nazionale laica degli armeni Nella sua breve esperienza in Armenia, Elio Ciol ha osservato i khatchkar, ha compreso la loro valenza epocale e ha avuto il coraggio di leggere a modo suo, il loro significato attraverso il suo geniale obiettivo. Questi monumenti, talvolta singoli e isolati, altre volte in gruppi di tre o quattro, o attaccati con maestosità discreta alle pareti delle chiese armene, danno al contempo il senso della solidità e il senso della solitudine di essere armeni. Solidità, per la propria appartenenza a una cultura millenaria; solitudine per le scelte gravose fatte nei secoli e pagate con moneta pesante, più volte con la vita, con il proprio sangue, quasi sempre lontani da «occhi indiscreti». Appartenere a un popolo fiero, senza prevaricazioni sugli altri, è la prerogativa di ogni armeno. Nella mia frenetica quotidianità, una frase di un mio carissimo amico ebreo torna molte volte nella mia mente: «Di voi armeni la prima cosa che si capisce è la vostra appartenenza etnico-culturale, della nostra, invece, è l’ultima…». L’armeno normalmente si presenta al prossimo declinando il proprio nome e cognome e aggiunge subito la sua etnia, molto prima delle sue eventuali qualifiche o titoli. Questo viscerale attaccamento alla propria storia e ai propri dolori potrebbe essere l’inizio di un’auto-presentazione a largo raggio.
Constatai come le strutture edificate non imponessero una
misura al territorio, come avviene in tante altre culture architettoniche,
specie nella nostra, ma vi si adeguavano, con una distribuzione che evitava
le perimetrazioni chiuse, le rigide simmetrie. Vi è così sempre una naturale
complementarietà tra chiese e monasteri e gli scoscesi e rocciosi paesaggi
che li circondano. Le fortezze sembravano proporsi come naturale conclusione
delle montagne, come, per esempio, ad Amberd. L’edificio medievale in
Armenia appare quasi come una naturale emergenza dal terreno, quasi sempre
proponendosi come perfettamente conclusa in se stessa, giustificata soltanto
dal contesto naturale nel quale è collocata: le montagne, i laghi, gli ampi
spazi verso l’Ararat, oltre l’ingiusto confine.
Adriana Mazza Pietre che cantano. L’Armenia di Elio Ciol La fotografia di architettura di Elio Ciol, che in Armenia ha trovato una materia in grado di sublimare la sua sensibilità estetica, confluisce pienamente nella sua fotografia di paesaggio, dove ogni paesaggio è inteso come sedimento «di tutti i momenti anteriori e, in tal senso, è in sostanza una concrezione di eventi, un insieme di orme, di segni, di memorie». Per accentuare la potenza del paesaggio così concepito, nella sua fotografia Elio Ciol ha quasi sempre preferito tenere la figura umana a distanza, una presenza discreta restituita con rispetto e sensibilità, che nel reportage armeno recede, fino a diventare assenza. Ma l’assenza di uomini e donne che anche oggi mantengono vivi quei luoghi consente, in ultima analisi, di esprimere lo spirito della cultura armena. I primissimi piani sui solchi nel tufo che disegnano le croci sembrano ancora riecheggiare degli strumenti utilizzati dagli scultori di un tempo lontano. Le volte delle cappelle sono ancora abitate dai canti liturgici della tradizione. E lo sguardo può farsi tatto, e sentire così le asperità sulle facciate dei monasteri, dove migliaia di pellegrini hanno lasciato nei secoli un segno del loro passaggio in segno di devozione.
Alessia
Borellini I primi anni Novanta sono
particolarmente significativi per la carriera di Elio Ciol. Nel 1991 a
Casarsa riceve il premio di «Cittadino dell’anno», istituito in suo onore e
lo studioso d’arte sir John Pope-Hennessy (1913-1994), già direttore
del Victoria and Albert Museum e in seguito del British Museum e del
Dipartimento di pittura europea del Metropolitan di New York, gli rende
visita a Casarsa per vedere il suo studio e le sue immagini delle opere di
Donatello conservate a Padova. Dalla visita scaturisce una commissione per
la ripresa di molte opere di Donatello a Firenze, che sono pubblicate nei
volumi Donatello Sculptor
(Abbeville Press di NY) e
Donatello per
le edizioni Umberto Allemandi di Torino. Nel 1993 Ciol realizza
l’esposizione «Le pietre raccontano di Chiara e Francesco», commissionatagli
dal Comune di Assisi in occasione dell’ottavo centenario della nascita di
Santa Chiara, esposizione che conoscerà svariate reiterazioni. Sempre nel
1993 inaugura l’esposizione «Dove l’infinito è presente», voluta
dall’Istituto Italiano di Cultura di Dakar e nel 1994 la mostra è reiterata
in differenti città tedesche, grazie questa volta all’Istituto Italiano di
Cultura di Berlino. Seguono altri anni ricchi di premi,
esposizioni e soddisfazioni. Fra tutti ricordiamo il volume «Venezia» (1995)
per le Edizioni Motta, che nel 1996 riceve a Londra il premio Kraszna-Krausz
quale miglior fotolibro, a pari merito con i volumi di Robert Doisneau,
Erich Hartmann e Naomi Rosemblum. |
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